Quella strana certezza sul “suicidio” di Primo Levi

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Il precetto metodologico del Rasoio di Occam, com’è noto, sostiene che “a parità di fattori la spiegazione più semplice è preferibile”. Mi è venuto in mente pensando alla celebre storia riguardante il suicidio del famoso sopravvissuto di Auschwitz, italiano di origine ebraica, il chimico Primo Levi, il cui anniversario è stato, appunto, l’11 aprile.

Leggendo un po’ di cronache su quella triste vicenda, mi sono imbattutto in questo video, infarcito della  solita retorica moralista, senza nessuna voglia di accertare la verità, in cui lo scrittore Marco Belpoliti definisce “l’enigma del suicidio” di Levi.

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Si parla di traumi psicologici del tutto giustificati (e del tutto presumibili per una persona che sopravvisse all’Olocausto) e di “sensi di colpa” del Levi indotto al folle gesto (qui la storia diviene già ben meno credibile, o meglio, frutto di un’ idea personale sull’argomento spacciata, però, per dato oggettivo). Neanche un accenno a ricostruire l’evento: solo racconti drammatici personali e letture del pensiero.

Come letture del pensiero dovevano aver fatto, evidentemente, i miei professori delle medie, tutti compattamente schierati nel raccontarci la tragica morte di Levi come causata da suicidio.

Quando, una quindicina di anni fa, mi venne di approfondire quale fosse stata la dinamica del decesso, sinceramente sgranai gli occhi, anche perché avevo creduto fino in fondo a questa certezza comunicatami in modo tanto genuino dai miei insegnanti. Per chi non lo sapesse, Levi fu trovato morto nell’aprile 1987 alla base della tromba delle scale della propria casa di Torino in corso Re Umberto 75. All’origine c’era evidentemente una caduta.

Sorge spontaneo chiedersi come mai un aspirante suicida non avesse lasciato alcun biglietto di addio, e, soprattutto, perché avesse optato per un metodo tanto complicato, quando lanciarsi dall’ultimo piano di un palazzo (per citare il primo di un macabro elenco di ovvietà) gli avrebbe garantito ben altre probabilità di “successo”. Insomma, mancano le prove, e soprattutto la dinamica  è, nel 99% di altri casi simili, considerata un incidente, per i motivi sopracitati. Non si capisce come mai questo caso sia stato non solo interpretato, ma addirittura raccontato con una definizione tanto drastica.

Le prove mancano a tal punto che, forse per renderle tali, il signor Elio Toaff, storico rabbino toscano, ha dovuto testimoniare, circa 18 anni fa, di una presunta telefonata in cui Levi, pochi minuti prima di rischiare di vivere lanciandosi dalla tromba delle scale, avrebbe annunciato il gesto grazie al quale per “buona sorte” trovò la morte. Ma nel frattempo, di nuovo, nessuna prova: nemmeno lo straccio di un tabulato o di una registrazione telefonica, nulla. Sostanzialmente la parola di Toaff vale di più della stranezza di un signore che, senza lasciare biglietti di addio e senza lanciarsi da un quarto piano, si uccide con il più improbabile dei sistemi.

Non si capisce perché, però, parola per parola data per prova, non valeva quella di Rita Levi Montalcini, che disse a più riprese di aver anche lei sentito telefonicamente Levi il giorno prima dell’accaduto, di averlo trovato di buon umore e senza la benchè minima idea di chiudere la propria esperienza sulla terra.

Insomma, una caduta viene raccontata a centinaia di migliaia di giovani, ogni anno di elementari e medie, come suicidio. Posso dire che “io c’ero”, e tra i miei vaghi ricordi c’è anche quello in cui mi immaginavo, impressionato bimbo di manco 10 anni, come questo vecchietto potesse aver deciso di farla finita. Tra i tanti, e senza essere un fine investigatore, penso che nessuno tra noi avesse mai pensato a una caduta dalle scale.

Chiudo con una considerazione: ciò che sconvolge di una ricostruzione riproposta con la stessa forza per tanti anni, non è il concetto di possibilità, ma quello della certezza ostentata, almeno nei primi anni, che tra l’altro ricordo molto bene perché come storia mi colpì molto.

Passi la prima, su: esistono molti modi stupidi di uccidersi, tra questi ci può anche essere la paranormale idea di credere di poter perdere la vita in modo avventuroso e incerto, cadendo in una tromba di scale, anzichè lanciarsi dall’ultimo piano di un palazzo o di spararsi, strategie che, sono sicuro, concedono orizzonti ben maggiori a chi vuole anticipare il proprio trapasso. In fin dei conti chi tenta il suicidio spesso combatte con il coraggio di un gesto del genere, atteggiamenti contradditori come l’attaccamento alla vita che spesso persiste, e quindi si può anche pensare, nonostante l’improbabilità di un metodo del genere, che in mezzo attimo si possa agire d’istinto.

Ma questa benedetta certezza da dove nasce?
La metto sul misericordioso, così che nessuno ne abbia a male: Dio benedica Primo Levi, lo scrivo col cuore in mano. Lo benedica a tal punto che spero che il suo ateismo sia rimasto “stupito” dalla sorpresa degli eventi.

Ma chiunque speculi sulle morti (e questo potrebbe essere uno dei casi, come a mio avviso ce ne sono stati tanti) deve solo ringraziare di essersi trovato nel solito lato giusto di quel gigantesco letto di sangue rappresentato dalla seconda guerra mondiale.

(di Stelio Fergola)

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