Personalizzazione, la piaga della politica italiana

La più grande, se non l’unica, eredità della seconda repubblica è sicuramente la personalizzazione della politica. Con la fine dei partiti tradizionali e la conseguente “morte” delle ideologie, i nuovi interlocutori della politica italiana sono riusciti a incarnare nella loro immagine milioni di elettori.

L’esempio più lampante è Silvio Berlusconi, il quale nel ’94 riuscì a diventare primo ministro con un partito creato pochi mesi prima delle elezioni. Una vittoria impressionante e improvvisa che lasciò giornalisti e politologi senza parole; non si poteva infatti ipotizzare un risultato del genere basandosi solo sul carisma di Berlusconi e la sua “rivoluzione liberale”, eppure l’imprenditore milanese riuscì a raccogliere quasi il 43% dei consensi. Sta di fatto che da allora il linguaggio politico mutò drasticamente. Finiva l’epoca delle correnti ideologiche, del dibattito sui programmi, e cadeva la figura del partito. Erano le origini della situazione odierna.

Se agli albori della seconda repubblica, nei vari PdS, AN e Rifondazione, persisteva quel senso di appartenenza, oggi questo è completamente azzerato: adesso parliamo di renziani, grillini e salviniani. Che la dicotomia “destra-sinistra” sia morta da tempo è un dato di fatto, le etichette ideologiche sono sparite ma, guardando al contesto in cui viviamo, la domanda da porsi è: siamo testimoni di un’evoluzione o di un’involuzione? A etichette che, nonostante tutto, rappresentavano determinati valori se ne sono sostituite di nuove completamente vuote, che nascono e muoiono assieme ai suoi rappresentanti. Con gli uomini cambiano anche le battaglie: quello che rimane della destra cerca l’unità in un leader a discapito dei programmi, la sinistra ha abbracciato i diritti civili a discapito di quelli sociali e l’elettore si trascina così in un confronto che si allontana dal bene comune , finendo spesso in una sterile diatriba.

Se guardiamo agli altri Paesi, possiamo vedere come il superamento della dicotomia “destra-sinistra” abbia lasciato spazio a nuove sintesi molto suggestive per chi, come noi italiani, vive nel piattume politico. C’è da dire, però, che quando ci accostiamo alla politica straniera, le nostre analisi non si fondano mai sul partito bensì sul suo leader. Un esempio banale è il fenomeno Le Pen: i nostri giornali ,quando parlano del clima politico in Francia, si focalizzano unicamente sulla figura di Marine Le Pen, ignorando il fatto che il Front National, oltre ad un programma saldo proprio del partito, si preoccupa della formazione dei suoi quadri dirigenti. E ci si dimentica anche dell’importanza delle correnti interne (da quella più “tradizionalista” della giovane Marion Le Pen a quella liberale del vicepresidente Philippot).

E anche quando i sovranisti nostrani si autodefiniscono “lepenisti”, cercano solo di cavalcare un’onda mediatica, e, ignorando tutto il lavoro di base e le singole proposte, non possono che finire per risultare ridicoli vista la differenza sostanziale tra il contesto francese e quello italiano. L’esterofilia in politica, in questo caso, è una conseguenza diretta del personalismo. Non si può pretendere di poter mandare avanti un partito (figuriamoci un governo!) basandosi sul solo carisma del proprio rappresentante. Guardiamo a qualche esempio tra le formazioni nostrane: il Movimento Cinque Stelle senza il collante Grillo-Casaleggio è una fucina di idee sfuse e contraddittorie, Forza Italia dopo i guai giudiziari di Berlusconi ha perso una significativa rilevanza, il Partito Democratico cambia linea a seconda del segretario.

Ciò che non si è ancora capito è che la politica punta al futuro e non alla singola elezione, un partito che in tempo di elezioni scende in campo e appena finite scompare non può che generare malcontento. Quando si sacrificherà il leader e si penserà alla formazione, forse, qualcosa potrà nascere.

(di Antonio Pellegrino)