Russofobia: il razzismo dei semicolti

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La russofobia si sta ormai conclamando come una vera e propria forma di razzismo. Infime bocche provano gusto e soddisfazione, tramite Fake News in salsa occidentale come quella della depenalizzazione delle violenze domestiche, nel descrivere la Russia come un paese del Terzo Mondo che non produce nulla, imputandone la presunta arretratezza economica e tecnologica all’inettitudine del suo popolo mediante analisi e teorie ideologicamente e concettualmente poco dissimili da quelle formulate dalla destra neonazista nei confronti delle popolazioni africane, reputate sprezzantemente primitive e poco lungimiranti senza tener conto in alcun modo contingenze storiche, rivendicazioni, vicissitudini e mentalità.

Nel popolo russo permane invariato il pregiudizio che lo rappresenta come barbaro e rozzo, chiaro sintomo di un approccio culturale sbagliato e fondamentalmente – permettetemi il termine – ignorante per quanto concerne la conoscenza della Storia. Senza girarci intorno, la Russia è forse il paese che vanta una delle letterature più affascinanti al mondo nonché una profonda sensibilità in campo musicale. La crisi dell’uomo contemporaneo narrata da Fëdor Dostoevskij si fonde con le influenze tardoromantiche e neoclassiche di Pëtr Il’ič Čajkovskij e di Igor’ Fëdorovič Stravinskij, le cui composizioni – Lago dei Cigni e Schiaccianoci, in primis – costituiscono la base per lo studio dei Balletti del XIX secolo nei migliori Conservatori del mondo.

Ma non solo: senza la Russia, ma senza soprattutto Bisanzio, non ci sarebbero state né l’Europa cristiana né la civiltà europea. L’Impero bizantino è di fondamentale importanza per la sopravvivenza del mondo cristiano in quanto unico regno di tale credo, in epoca medievale, in grado di tenere testa al mondo musulmano sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista militare. Ulteriore motivo, quindi, per mostrare maggiore rispetto nei confronti di questo Paese.

Invece, purtroppo, assistiamo a tutt’altro: per non essere stata accondiscendente, dalla fine del mondo multipolare in poi, a trasformarsi in una democrazia liberale e a svendere le sue risorse ed essere rimasta fedele alle tradizioni millenarie del credo ortodosso, la Russia viene punita con una narrazione delle vicende che la riguardano molto spesso parziale, propagandistica se non addirittura calunniosa. Così gli interventi in Cecenia prima ed in Siria dopo contro il terrorismo islamista di matrice salafita coccolato dalle petromonarchie del Golfo vengono descritti come brutali nonostante abbiano evitato l’insorgere di un Califfato nel Caucaso e contribuito alla liberazione di Aleppo e Palmira, per le quali, nell’Occidente dei gessetti colorati e delle marce a piedi nudi, tanto si è strillato e nulla, di concreto, si è fatto.

La questione ucraina ed Euromaidan sono state incentrate secondo il mantra categorico ed inderogabile dell’aggressione russa nonostante su Wikileaks siano consultabili documentazioni che attestino come in realtà i registi dietro le quinte fossero la signora Victoria «Fuck The EU» Nuland e Joe Biden, Vice Presidente degli USA durante la Presidenza di Barack Obama. Stessa cosa per quanto concerne la crisi della Crimea: all’opinione pubblica occidentale si deve fare credere a tutti i costi che i cittadini abbiano votato l’annessione alla Federazione Russa perché costretti dalle punte degli AK-47 dei militari russi puntate sulla schiena. Che importa se i sondaggi dichiarassero che il 95% della popolazione della penisola si sentisse effettivamente russo e abbia scelto di aderirvi perché spaventato dall’estremismo nazionalista e dal revanscismo banderista antirusso del governo golpista di Kiev e degli sgherri di Svoboda e Pravy Sektor che avrebbero portato a persecuzioni nei suoi confronti.

Non si riesce a comprendere che il pericolo non proviene più da est, ma da sud, ossia da quei paesi che hanno subito le “amenità” delle Primavere Arabe e delle esportazioni democratiche. Quello che sta accadendo all’interno della classe dirigente USA in seguito all’elezione di Donald Trump – voglioso, sin dalla campagna elettorale, di stringere rapporti di collaborazione con Vladimir Putin – ne è un chiaro e limpido segnale: una lotta senza quartiere e senza esclusione di colpi dove a farne le spese sono quelle figure desiderose di seguire la dottrina geopolitica del Tycoon. Come Michael Flynn, costretto alle dimissioni da Consigliere per la Sicurezza Nazionale perché «a rischio ricatto del Cremlino» dopo aver intrattenuto, nella fase di transizione, rapporti formali e di normale amministrazione con Sergej Kisilyak, ambasciatore russo a Washington, nei quali avrebbe discusso delle sanzioni e del rientro dei 35 diplomatici espulsi da Barack Obama per punire Mosca del presunto hackeraggio durante le elezioni presidenziali.

Chi, fino all’altro giorno, ha tessuto i fili della linea politica statunitense ed è stato soppiantato da una fazione che ha deciso di cambiare visione sta lottando con le unghie e con i denti per impedire tale cambiamento, il quale potrebbe essere più facilmente raggiungibile qualora l’Europa uscisse dalla situazione di torpore dovuto alla sua immensa sudditanza a taluni dettami autolesionisti e cominciasse a considerare la Russia come parte inestimabile del suo patrimonio culturale.

(di Davide Pellegrino)

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