Politico britannico di colore viene accusato di razzismo dopo aver criticato Obama

Alcune settimane fa affermavo che il fatto che Obama fosse il primo presidente statunitense afro-americano non dovesse mettere in secondo piano i suoi dubbi successi politici. Per questo fui accusato, da parte di un commentatore di Radio 4, di aver fatto un “discorso razzista”. In quanto nero ed ex presidente della Commissione per i Diritti Umani e l’Uguaglianza, potreste credere che fossi alquanto stupito di essere accusato di razzismo – ma in realtà no. Perché in tempi come questi, dove le tematiche della razza e della sessualità sono molto discusse, il dibattito viene spesso tacciato a causa di coloro che vedono “razzismo” e “sessimo” ovunque.

Il risultato, come ho detto stasera in un programma televisivo, è che la nostra élite politica e culturale è divenuta incapace di parlare liberamente su questioni che riguardano da vicino molti cittadini.
Mentre i nostri governanti sembrano avere molto tempo per discutere su chi abbia il diritto di usare uno spogliatoio (mi riferisco alla lobby LGBT), al contempo archiviano il problema delle scuole sovraffollate o della mancanza di spazio negli ospedali come odio verso gli immigrati. Come si è arrivati a ciò? Quarant’anni fa, le politiche “identitarie” erano volte a eliminare le discriminazioni, ed arrivarono a importanti traguardi in tema di genere, disabilità e razza; ma recentemente, la politica della “diversità” si è evoluta in una tirannia culturale che sopprime il libero dibattito.

Nell’educazione superiore, questa cosa si è diffusa a macchia d’olio. Gli sforzi per tenere fuori dalle università i veri razzisti sono andati oltre, e hanno iniziato a nascere le censure, per esempio, verso quegli intellettuali con opinioni “fuori moda” sul tema della transessualità. Anche i semplici professori sono divenuti preda di questa censura. Le “persone sensibili” hanno protestato contro il Premio Nobel Tim Hunt per una sua battuta un po’ infelice sulle donne che piangono nei laboratori.

Non passa giorno nelle università senza una richiesta per rimuovere una statua [si riferisce alla statua di Cecil Rhodes ad Oxford, ndr] o per creare uno “spazio sicuro” dove gli studenti sensibili possono essere protetti dalle opinioni forti in un dibattito culturale, o dalla violenza sessuale presente in un testo di letteratura classica. Ma come può un giovane comprendere quanto è preziosa la nostra libertà odierna, senza imparare come era il mondo prima? Non dovrei raccontare ai miei figli l’agonia dei loro avi, costretti alla schiavitù nelle piantagioni di zucchero?

Sfortunatamente, questo rifiuto debole e vigliacco di affrontare la realtà non si estende solo alle accademie. Non c’è modo di sfuggire a questa “politica del linguaggio”, nemmeno se appartieni a una minoranza “vulnerabile”. Dieci anni fa, commentai che il carnevale di Notting Hill era ormai divenuto un evento internazionale e avesse coinvolto anche la comunità indiana – un’opinione assolutamente non provocatoria. In risposta, l’allora sindaco di Londra, Ken Livingstone, mi accusò di essere diventato così “di destra” che “avrei dovuto iscrivermi al British National Party”.

Spesso le pressioni all’uniformità di pensiero sono sottili, ma non per questo meno efficaci. Nel 2009, diversi parlamentari Labour iniziarono una campagna per costringere il Primo Ministro Gordon Brown a togliermi la carica da presidente della Commissione per i Diritti Umani e l’Uguaglianza. Il mio peccato fu, credo, dare un incarico a un cristiano evangelico nero. Pensai che le migliaia di cristiani neri e asiatici dovessero essere rappresentati, ma è noto come i cristiani evangelici abbiano una visione dell’omosessualità piuttosto ristretta. Io non sono d’accordo con loro, ma pensai comunque che la Commissione dovesse rispettare e riflettere tutti i punti di vista.

Alcuni membri del governo non la pensavano come me: volevano sì un commissario nero, ma solo uno che vedesse il mondo come lo vedevano loro. Senza l’intervento di Harriet Harman, Brown probabilmente mi avrebbe licenziato. Eppure, quando si tratta di servire particolari interessi, anche i più integerrimi “guerrieri dell’ugualianza” cambiano opinione. Prendete ad esempio la recente decisione di John Bercow, Presidente della Camera dei Comuni, di cercare di bandire il Presidente Donald Trump da Westminster per la sua presunta islamofobia.

Non esiste alcuna persecuzione sistematica degli islamici in America, mentre in altri paesi i musulmani rischiano la vita: agli uiguri in Cina è proibito praticare la propria religione se lavorano come dipendenti pubblici; in Birmania migliaia di musulmani sono fuggiti dalle persecuzioni della maggioranza buddhista; e la Corte Suprema indiana sta investigando il ruolo del Primo Ministro Mordi nei disordini di Gujarat del 2002, quando più di 700 musulmani furono uccisi. Eppure, il presidente cinese Xi Jinping, la leader birmana Aung San Suu Kyi e il Primo Ministro indiano Mordi sono stati accolti al parlamento con tutti gli onori.

La nuova tirannia culturale minaccia anche la ricerca accademica, perfino quando potrebbe aiutare a ridurre le disuguaglianze. Per esempio, non esiste ancora uno studio completo sugli splendidi risultati accademici degli studenti di origine cinese nel mondo occidentale. I miei tentativi di promuoverlo sono stati bloccati per timore che avrebbe discriminato altri gruppi etnici. I veri perdenti di questo rifiuto di affrontare onestamente le questioni di genere e razza sono, ironicamente, proprio le donne e le minoranze etniche.

Un think tank economico, il Centre for Talent Innovation, ha scoperto che molti dipendenti femmine o di minoranze etniche si sono lamentati del fatto che i loro capi erano troppo timorosi di venire accusati di sessismo o razzismo per parlare con loro liberamente sulle loro performance di lavoro; hanno scoperto di aver lavorato male solo quando sono stati licenziati. L’ipersensibilità sulle questioni razziali ci ha anche impedito di portare avanti un dibattito civile sull’immigrazione. La settimana scorsa Tony Blair, nel suo discorso sulla Brexit, ha detto che “il cuore del problema è stata l’immigrazione”. A prescindere da come la si pensi, molti sondaggi dimostrano che ha ragione.

Eppure, dallo scorso giugno, la maggior parte dei politici ha continuato a sostenere che la Brexit avesse poco a che fare con il problema dell’immigrazione. La destra ha paura di parlarne per timore di razzismo; la sinistra non vuole discuterne perché impegnata a celebrare il multiculturalismo come una benedizione; e quando un politico qualunque cerca di sollevare il dibattito, destra e sinistra si coalizzano per zittirlo.

Il primo ministro olandese, Mark Rutte, di recente ha lanciato un appello ai musulmani olandesi dicendo “seguite le nostre leggi o andatevene”. E lui guida il Partito Liberale! Un giornale di sinistra ha definito il mio film di denuncia sulla correttezza politica “inutile”. Inutile per chi, mi chiedo?

(di Trevor Phillips, Daily Mail – Traduzione di Federico Bezzi)