L’America degli invisibili: la rust belt che vota Trump

Questo che ci apprestiamo a raccontare è un viaggio nella disillusione, nel brusco risveglio di una parte di America che viveva il sogno a cui il mondo occidentale ha sempre ambito, un sogno interrotto dagli effetti di una globalizzazione selvaggia. Quello che vi proponiamo oggi sarà un viaggio tra una parte di America dimenticata dagli sfarzi della propaganda obamiana, dimenticata dai grandi centri e dalle torri d’avorio di Washington e New York, torri da cui giornalisti ed opinionisti narrano uno scenario che spesso e volentieri non collima con la realtà.

E’ la storia di una periferia umana che un giorno si è destata e ha scelto Donald Trump. Un racconto lontano dagli stereotipi dei media, quelli della nenia stantia “Trump è stato votato da razzisti e ignoranti”. Questo è il racconto della “cintura della ruggine” e il suo presente che, nonostante le delusioni della vita e di 8 anni di promesse mancate, non sa di rabbia, ma di speranza. Il presente, nella città deindustrializzate d’America, ha il sapore grigio e marrone di un quadro di Vincent Van Gogh, di un racconto di Dick, o di un film neorealista di Vittorio De Sica.

Fabbriche diroccate, orti trascurati, prati incolti, strade vuote e silenziose. Case abbandonate, sventrate per il rubare rame o altro materiale di valore. Macerie. Grattacieli disabitati, a raccontare la vita che era e quella che è, senza aspettativa alcuna. Penuria di cibi freschi. Gangs di latinos e figli di ex operai che hanno visto il benessere diradarsi, e per questo sempre più minacciosi. Chiese che diventano gli ultimi punti di aggregazione in quartieri spopolati, insieme a qualche bar dove affogare la sensazione di fallimento perpetua che accompagna ogni cittadino di questa zona. Il ritorno del baratto. La nascita di nuovi stili di vita.

Sembra un Medioevo futuristico. E invece è quanto è accaduto in città del Midwest e del Nordest statunitensi come Cleveland, Detroit, Flint, Youngstown, Buffalo. Un tempo fucine di benessere e speranze, il cuore progressista, operaio e democratico degli Usa. Il cuore soprattutto produttivo. Oggi queste ex capitali industriali della Rust Belt vivono un’agonia economica, sociale e demografica di proporzioni colossali. Le condizioni di vita di popolazioni discriminate, impoverite e marginalizzate sono state spinte al limite. Nei deserti urbani della Rust Belt, curarsi e fare la spesa, studiare e spostarsi, lavorare e andare al cinema è diventato incredibilmente difficile, talvolta impossibile.

E’ in questi posti, pieni di “angeli di desolazione “ kerouckiani che si può scorgere la delusione di chi aveva riposto tutti i suoi sogni nel “YES WE CAN” del 2008, sogni pian piano portati via dal vento della disillusione. Disillusione che, insieme alla povertà, ha lasciato segni evidenti sul volto di Tina. “Obama qui non si è mai visto. Per otto anni è stato un ologramma che dalla Tv dispensava ottimismo mentre noi perdevamo tutto. Lentamente. Mio marito si è svegliato una mattina senza lavoro, la sua fabbrica in due anni ha più che dimezzato le commesse di acciaio, poi ha chiuso. Obama non si è mai degnato nemmeno di nominarci, l’unica cosa che abbiamo avuto da Obama? L’aumento dell’assicurazione sanitaria a causa dell’Obama Care. Hillary? Non mi sono nemmeno sognata di votarla.

Sono sempre stata democratica, ma qua Trump ha preso i voti perché è stato vicino ad operai e disoccupati, soprattutto, ed è venuto anche dopo a dire grazie, nessuno l’aveva mai fatto. Trump è stato qui tre volte. Ha riunito nelle fabbriche chiuse operai, sindacati e imprenditori falliti. Ha ascoltato i nostri problemi, le nostre paure. Nessuno ha capito. Tutti parlano di altro. Trump non è un voto di rabbia ma di speranza! ” Lo ribadisce Tina, moglie di un ex operaio, afroamericana.

La questione razziale e “il pericolo Trump razzista”, non arriva nelle periferie d’America, qua arriva la fame. La questione razziale è uno specchietto per allodole, una distrazione, uno spauracchio da agitare nelle città dove la crisi non ha sfiancato totalmente le classi meno abbienti. Così come la paura di “Trump il razzista” non è arrivata tra gli ispanici minatori e tecnici delle miniere di carbone senza lavoro dal 2014. In attesa di una riconversione mai avvenuta. I cartelli neri con scritto “miners for Trump” spopolavano ai comizi incontri di Donald
Si scoprirà che il 68% dei minatori americani ha scelto Trump.

E il 70% di minatori sono latini ed afroamericani. Trump è tornato anche qui a ringraziare. Un popolo più volte demonizzato, accusato quasi di essere il maggior responsabile del riscaldamento globale. Ecco l’America dimenticata dai salotti buoni, dai democratici che vedevano già Hillary alla Casa Bianca, che altro i non hanno saputo fare che accusare i russi e gli hacker, anziché chiedere scusa agli ultimi. A quella “rust belt” che ha voltato le spalle all’establishment e alla globalizzazione selvaggia che ha ferito questa parte di Stati Uniti, ma non ucciso. La parte più vera, la spina dorsale di una nazione che si è alzata e ha detto “basta” votando Donald Trump, l’unico capace di ascoltare l’urlo silenzioso che arrivava dalla periferia.

Questa è l’altra verità, di un America silenziosa che non urla a comando negli aeroporti, non ne ha il tempo, né la voglia perché impegnata a sopravvivere. A Donald Trump il dovere e l’onore di riaccendere quel sogno americano che “la cintura della ruggine” non ha buttato, ma chiuso gelosamente in un cassetto.

(di Luigi Ciancio)