Il suicidio di Michele e la disgregazione della società

Rabbia, sconcerto, tristezza e sgomento sono le prime comprensibili reazioni di fronte alla fine tragica di una giovane vita. Michele aveva 30 anni ed era stufo di vivere una vita precaria, era stanco di non vedere un futuro e di vivere in una società individualista ed in preda all’incertezza più estrema.

Michele ha scelto di lasciare questa vita alla giovane età di 30 anni, ma è stato capace di consegnarci una lettera coi suoi ultimi pensieri: in essa sono contenute le motivazioni del suo gesto estremo e, con un’incredibile lucidità, le sue più profonde riflessioni sulla vita degradata di questa società. Delle riflessioni fondanti e forse più diffuse di quanto si potrebbe credere, che sono sia un atto di accusa che una amara constatazione.

Se da una parte non possiamo che puntare il dito contro i princìpi attualmente imperanti, ancorati ad una mitologia dei “valori dell’economia”, della scalata sociale e della competizione tra gli individui (homo homini lupus!), dall’altra sicuramente bisogna riflettere sulla condizione sociale della gioventù odierna e su come essa percepisca la realtà che la circonda.

In tanti, anche prima di Michele, si sono trovati a scrivere e ad accusare la società venutasi a creare in queste terre: un enorme contenitore globalizzato dove ogni individuo agisce in solitario e si trova ostracizzato, in una condizione di lotta con gli “altri” e la società nel suo complesso, dove il successo personale (soprattutto in termini economici e monetari) sono gli unici criteri per la valorizzazione del singolo. È quindi evidente che non ci sia spazio per le personalità più solidali, più fragili e più disposte al sacrificio personale. Ogni forma di aggregazione sociale è volutamente portata ad essere sgretolata, dalla famiglia alle piccole comunità, e solo l’individuo in quanto tale è il prodotto migliore e più funzionale all’economia di mercato, un soldatino pronto ad accettare qualsiasi condizione precaria e di isolamento.

I giovani sono sicuramente la categoria più esposta a queste condizioni: si trovano costretti ad accettare lavori precari senza tutela contrattuale, spesso provenendo da famiglie sgretolate e prive dei necessari sostegni economici, per essere poi quotidianamente bombardati da una sottocultura dell’apparenza senza sostanza. Se è innegabile che i giovani siano delle “vittime” di questo sistema, bisogna allo stesso modo constatare una loro sostanziale “complicità” con lo stato di cose presenti.

Il giovane ha perso la capacità di fare scelte coraggiose, di sganciarsi dagli assiomi imposti dall’alto e dal conformismo buonista ed ipocrita, per il quale la “gentilezza” politicamente corretta del linguaggio è più importante che far sentire la propria voce per rivendicare i propri diritti e quelli della propria comunità. La gioventù ha perso il senso del dovere, dello sforzo e dell’abnegazione, ha di fatto paura a mettere in discussione la propria condizione di “ingabbiamento”, di una sopravvivenza miserevole e stentata. Michele era stanco di vivere così, e ha optato per una scelta estrema e radicale, comprensibile nel suo insieme, ma forse sbagliata: in questa autoimmolazione ha rinunciato al coraggio e al dovere di combattere, ha abbandonato l’idea di liberarsi dalla prigione invisibile che lo rinchiudeva.

La più grave colpa delle giovani generazioni è l’accettazione, passiva e beata, della sua condizione, la mancanza assoluta di stimoli per cambiarla radicalmente: la mancanza di una “sana” rabbia antisistema. È triste invece vedere che la rabbia spesso viene sapientemente veicolata dal sistema verso battaglie secondarie, come quelle per i cosiddetti “diritti civili”, verso avversari politici, ovvero i nemici dello status quo, e contro le opinioni non conformi al Pensiero Unico.

Viviamo una condizione di schiavitù imposta che è stata accettata passivamente: questa è la colpa più grave peggiore delle ultime generazioni. Michele non è riuscito a trovare la forza per lottare e ribellarsi, ma Michele innanzitutto è vittima di una non-comunità selettiva e alienante.

(di Simone Nasazzi)