La cultura politica nell’era Trump

Con il passaggio di consegne a Washington appena avvenuto, Donald Trump conclude con un trionfo strabiliante la discesa in campo che iniziò, scendendo dalla scala mobile della Trump Tower, nell’estate del 2015. È l’ascesa più controcorrente nella politica statunitense degli ultimi decenni e Trump è l’uomo che ha incrinato quella lunga e sostanziale continuità di idee e politiche delle amministrazioni statunitensi. Accostato delle volte a Nixon per alcune “vicinanze” nella politica estera, altre volte a Carter per il suo essere un “uomo nuovo” sulla scena politica, molto più spesso a Reagan per alcuni punti del suo programma, «The Donald» è in realtà una meteora fuori da qualsiasi schema usato in passato. Impossibile da inquadrare nei vecchi schemi e nelle vecchie logiche.

La crisi economica ed egemonica della potenza statunitense ha inevitabilmente condotto ad un forte rivolgimento della politica interna: la vittoria di Trump è un sintomo della crisi strutturale che attanaglia, già da anni, questo sistema, e che né gli approcci aggressivi e muscolari di Bush né le politiche caute e riformiste di Obama hanno potuto risollevare. Lo sbocco, la ricerca di soluzioni nuove e all’avanguardia, non poteva che rivolgersi verso un personaggio estraneo al sistema di valori che hanno dominato la cultura politica statunitense da Roosevelt in poi. Donald Trump appunto. Ed il nuovo Presidente non solo non è un membro del cosiddetto “establishment”, ma è, soprattutto, sia esterno ad esso sia fieramente avverso alle logiche e alle convenzioni della politica statunitense. A cominciare dalla sua figura privata: fino a due anni fa era un grandissimo nome dell’industria, un tycoon miliardario che aveva costruito un impero senza mai occuparsi della cosa pubblica. La sua discesa repentina e fulminea, che in Italia ricorda molto quella di Berlusconi, negli USA ha un solo precedente (per altro fallimentare): la candidatura del miliardario Ross Perot nel 1992 e nel 1996 con il Partito della Riforma, che, nonostante le enormi spese, fu un vero flop (19 milioni di voti e 0 grandi elettori nel 1992, 8 milioni e sempre 0 grandi elettori nel 1996). Trump invece è stato capace di diventare Presidente sfruttando abilmente sia l’ombrello politico offerto dal tradizionale bipartitismo statunitense, sia, contemporaneamente, la sua radicale estraneità a tutto ciò che il sistema aveva compiuto fino ad allora (e, in realtà, la sua estraneità anche alla logiche strettamente partitiche). È infatti indubbio che una vasta fetta dei cittadini americani abbiano preferito lui proprio perché “esterno”, e che anche la sua inesperienza in politica più che danneggiarlo lo abbia avvantaggiato. Questo è un precedente incredibile, che conferma dei grandi mutamenti nella pubblica opinione: persino un Presidente come Reagan, proveniente dal mondo del cinema e da una professione come quella di attore, è stato Governatore (della California) prima di osare lanciarsi verso la Presidenza.

Gli statunitensi, nel 2016, hanno anche scelto un candidato in guerra dichiarata contro tutti i pilastri convenzionali che sorreggevano le impalcature (periclitanti finché si vuole) del vecchio Impero: la stampa e la sua presunta imparzialità, la certezza nelle istituzioni, il cerimoniale del politicamente corretto, quella sorta di “continuità morale” tra le varie presidenze, ed il modo sul quale fare propaganda. Nessun candidato alla presidenza degli ultimi decenni, e soprattutto nessun Presidente eletto avevano mai osato dichiarare che i giornalisti sono «among the most dishonest human beings on earth», insistendo sulla parzialità della copertura mediatica e sull’immagine distorta e tendenziosa data ad eventi e parole – si tratta di uno di quei “pilastri sacri” degli American values. Mai, nel paese della “freedom” per eccellenza si è verificata una guerra fratricida che mettesse in dubbio un simile pilastro (anche se la copertura mediatica offerta dai colossi e gli endorsement giornalistici mostrano in modo palese quanto Trump abbia ragione). La situazione nella quale più ci ci si avvicinò ad un conflitto con tra un candidato e la stampa, anche se in un contesto totalmente diverso, fu nel 1964 nei confronti del candidato repubblicano Barry Goldwater, ultra-conservatore bersagliato da quasi tutte le testate (ma anche con una bassa popolarità: tant’è che fu sconfitto col 38% dei voti contro il 61% di Johnson, 486 grandi elettori a 51).

Difficilmente Trump sarà in grado di domare la stampa e i grandi network, e viene da pensare che la sua battaglia possa diventare un lungo stillicidio (che potrebbe forse avvantaggiarlo); ma per quanto riguarda la reinvenzione delle innumerevoli convenzioni non scritte, il tycoon ha la strada spianata e sta già imponendo le sue regole. Donald Trump è infatti arrivato dove nessun altro, in epoca contemporanea, era arrivato: a vaticinare possibili brogli elettorali (sollevando dei dubbi e dei timori inaspettati), alla minaccia di non riconoscere la validità di una eventuale sconfitta elettorale, fino allo spauracchio di perseguire penalmente e far condannare la sua avversaria. Che queste parole contengano dei suggestioni fondate (in particolare riguardo alla correttezza del sistema di votazione USA) non si può dubitarne, come anche è vero che, viste le corruttele, molteplici e gravissime, di Hillary Clinton, iniziare un procedimento penale a suo carico sia giusto e corretto. Lo scenario esplosivo venutosi a creare è qualcosa di inusuale: quella che era stata definita «democrazia depoliticizzata» da Lijphart, per l’intesa e la grande correttezza esistente tra i candidati, non aveva mai assistito ad arringhe di questo tipo. La perfetta alternanza ed armonia bipartitica che hanno dominato la vita pubblica d’Oltreoceano fino all’incancrenimento con questo 2016, è morta e si è trasformata in un sistema ultraconflittuale e polarizzato. Il fair play politico è stato disintegrato.

Sulla stessa linea Trump ha proceduto alla revisione di certe convenzioni più politiche: ciò che salta più immediatamente all’occhio è il suo discorso all’Inauguration Day, totalmente estraneo ai classici canoni di quel tipo di retorica, e molto più vicino ad un discorso da politico in campagna elettorale piuttosto che da Presidente vincitore. Se confrontato con i discorsi degli altri Presidenti, da Clinton a Obama, quello di Trump si basa su presupposti opposti. Mentre la retorica solita è piuttosto convenzionale, condita da forti riferimenti alla storia dei Padri Fondatori, ai valori, all’unità e non tratta di programmi politici se non in modo indiretto ed obliquo, Trump si è concentrato nel delineare la sua Weltanschauung, nel puntare il dito contro «a small group in our nation», nel condannare interamente una generazione ed un modo di fare politica, e ha avuto la sua Spannung nella sua ricostruzione dell’America «starting right here, and right now». Del tutto assenti i ringraziamenti alle precedenti amministrazioni e i riferimenti storici (se non quelli al patriottismo degli statunitensi), che pure sono stati un polo ideologico costante e emotivo tra le varie Presidenze: lo schiavismo, la guerra civile, e la lotta per i diritti dei neri nei discorsi di Obama, Dio, la Bibbia e Jefferson in quelli di Bush, le idee alla base della Rivoluzione americana per Clinton, e così via. Trump ha rivisitato a suo modo i canoni della retorica politica.

Infine, un altro elemento degno di nota della nuova Presidenza, è l’uso massiccio di nuove forme e nuovi di stili di propaganda. Non si sa quanto la rete e i social network abbiano aiutato la vittoria del candidato repubblicano, ma è molto probabile che abbiano ricoperto un ruolo davvero decisivo. L’uso delle piattaforme social, e in particolare di Twitter, non è in sé innovativo: invece lo stile utilizzato dal tycoon lo è! L’abilità di scrivere messaggi concisi, continui e martellanti, composti da moduli retorici accesi, indirizzati all’annientamento dell’immagine pubblica e della credibilità dell’avversario, e scritti con la stessa emotiva genuinità dei suoi discorsi, hanno ampiamente rilanciato la popolarità di Trump. Hanno reso lui e il suo stile di comunicazione (uno stile, quello dei social, che avvicina in modo estremo e porta al contatto diretto il capo con la massa) una novità vincente. Una novità frutto del web 2.0, che gli sfidanti di Trump non sono stati minimamente capaci di utilizzare, e che da ora influenzerà e modificherà sempre di più le forme comunicative all’interno della società americana.

(Leonardo Olivetti)