La scomoda verità di Minzolini: “Il 2011 fu letale per l’Italia”

Il 2011 sarà ricordato come un anno estremamente drammatico per il nostro Paese, in cui la sovranità è stata messa su un piatto d’argento e svenduta, umiliata. Testimone importante di quei giorni fu il giornalista – oggi senatore – Augusto Minzolini, all’epoca direttore del Tg1. In quest’intervista a tutto tondo ripercorriamo alcuni passaggi importanti di quei giorni.

Direttore, finalmente ci siamo: a Trani, si sta celebrando un processo contro le agenzie di rating, contro le quali lei solo, all’epoca, si scagliò in un editoriale del suo TG1. Era il 2011, un anno particolare per il Paese, oserei dire l’inizio del calvario.

Per capire ciò che accadde davvero nel 2011, bisogna partire da un presupposto: la crisi del governo Berlusconi e il successivo avvento di Mario Monti, non avvennero per l’esaurirsi di un’esperienza governativa, ma come risultato dello scontro fra due politiche:quella tedesca, del rigore e quella di chi- come Berlusconi- era invece convinto che per uscire dalla crisi occorresse un piano di sviluppo. Per una serie di vicende para-giudiziarie, a cominciare dalla vicenda sui costumi del premier – il caso Ruby, ndr- proseguendo con il tentativo di disarticolare la maggioranza fatto con la vicenda Fini e infine attraverso la pressione dei mercati, la politica di sviluppo fu soccombente.

La cosa che colpisce, è che le vicende sullo stile di vita di Berlusconi -i casi Noemi Letizia, Nicole Minetti, Ruby ndr- avevano un’eco enorme all’estero e solo dopo -se badi bene – rimbalzavano sui media italiani, in una situazione di pressione ascendente e continua.

Sul piano finanziario, quello che accade è altrettanto paradossale. All’epoca, i due Paesi manifatturieri per eccellenza, erano Germania e Italia; Italia che venne scelta come vittima sacrificale predestinata a pagare a livello europeo i costi di una crisi planetaria. Deutsche Bank decise e infatti di immettere sul mercato una quantità immensa di titoli di Stato italiani, così da far pensare ai grandi fondi internazionali che la situazione italiana fosse drammatica e conseguentemente farli rivolgere verso i titoli di stato tedeschi, considerati più sicuri. Questo ebbe come conseguenza l’impennata dello spread. Le agenzie di rating, a quel punto, specularono su questa situazione.

Lei nel 2013, da senatore, proprio in merito a questa vicenda teorizzò l’impeachment di Giorgio Napolitano: riassumendo, qual è stato il suo ruolo nella vicenda?

Napolitano diventò il referente di chi voleva per l’Italia la ricetta franco-tedesca dell’austerity, la sponda italiana di chi esercitava le pressioni che ho descritto. La scelta di Monti – dal libro di Friedman emerge molto bene- non fu casuale: Monti era il più grande sostenitore della politica del rigore voluta dalla Germania. Non è un caso che, appena insediato, si vantò di essere il più tedesco fra gli economisti italiani.

Questa fu un’operazione letale per l’Italia, ci ridusse ai minimi termini e per questo, chiesi nel 2013 l’impeachment di Giorgio Napolitano, che ebbe in questa vicenda una responsabilità enorme e gravissima.

Ricapitolando: un editoriale contro le agenzie di rating nel 2011, l’aver tenuto in piedi la trattativa stato-mafia quando perfino il Fatto taceva, la teorizzazione dell’impeachment di Napolitano, a cui aggiungere la lotta inizialmente solitaria contro le riforme del governo Renzi, che lei non ha mai votato fin dall’inizio e-non scordiamocelo- la sua denuncia del Presidente del Senato Grasso per come aveva condotto le votazioni durante la riforma costituzionale Boschi-Renzi , concedendo il famigerato canguro.  Pensa che tutto questo sia collegato alla vicenda giudiziaria che lo riguarda?

Non lo so, né mi immagino che certe cose siano decise in apposite stanze segrete. Di certo però la mia vicenda ha del paradossale: vengo assolto in primo grado da un tribunale indipendente e condannato da giudici politici, nel vero senso del termine. In appello, il giudice aumenta di 6 mesi la richiesta del Pm: tanti quanti ne servono per far scattare la legge Severino.

Quel giudice è Giannicola Sinisi, ex parlamentare, che ha ricoperto incarichi di Governo con Prodi e Napolitano. In Cassazione, il relatore era capo di gabinetto del governo Prodi. Considerato che non ci sono moltissimi giudici con un passato in politica, appare singolare come io ne abbia incontrati ben due, tutti e due del mio opposto schieramento, tutti e due appena rientrati in magistratura. Un indizio è un caso, due inizi a pensare, tre fanno una prova.

Non lancio accuse, espongo semplicemente i fatti, verificabili da chiunque. Certo è che tutto ciò mi porta a pensare che le vicende che hai ricordato abbiano un peso: finchè ero un gornalista, sono stato assolto. Il giudice del lavoro, addirittura, obbligò la Rai a restituirmi i soldi (delle spese contestate nell’esposto, ndr). Dopo l’ingresso in politica, al contrario, sono stato condannato, pesantemente. E’ lo stesso principio su cui dovrebbe basarsi per legge ogni sentenza di condanna, quello della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, a venire meno: prima due sentenze di assoluzione, poi due di condanna. Chiunque si porrebbe delle domande.

A proposito di giudici, è di oggi la dichiarazione del Presidente della Cedu che definisce non inverosimile la possibilità che la Corte possa esprimersi sul ricorso presentato da Berlusconi in merito alla liceità della legge Severino.

Rimango perplesso: sono passati tre anni, un’enormità, considerati soprattutto gli interessi in gioco.
I meccanismi utilizzati per difendere la Severino sono assolutamente privi di logica: dire che possa essere retroattiva è negare l’articolo 25 della costituzione, l’articolo 2 del codice penale, lo stesso articolo 7 della Convenzione sui diritti dell’uomo e farlo nascondendosi dietro l’etichetta di sanzione amministrativa è alquanto illogico, poiché di fatto interviene in conseguenza di un reato penale. Estromettere qualcuno dalla vita politica poi, in seguito a due condanne assurde come la mia e quella di Silvio Berlusconi, in una democrazia dovrebbe essere impensabile.

Il nostro Paese è strano, abbiamo una “democratura”, una dittatura travestita da democrazia, in cui c’è precisione chirurgica nell’eliminare gli avversari politici, proprio come nelle dittature.
Io non ricordo nella mia carriera di giornalista, di un magistrato che dopo aver occupato cariche di Governo, torni in magistratura e decida il futuro politico di un avversario, la trovo un’enormità.

Come darle torto. Adesso mi faccia una delle sue famose profezie.

Non faccio profezie, ma ragionamenti.

Non è vero, sono scritte nero su bianco sui suoi celebri tweet e si sono avverate. Ne faccia una anche per i nostri lettori: con che legge si andrà a votare e quando?

Sicuramente occorre partire da un presupposto: il Paese è cambiato profondamente di tempi in cui fu concepito il Porcellum e occorre adesso valorizzare la rappresentatività. Non farlo, vorrebbe dire commettere lo stesso errore di Renzi, che ha approvato la sua riforma costituzionale con una maggioranza che non era rappresentativa di quella del Paese. Serve quindi una legge pure maggioritaria, ma con alte dosi di proporzionale, magari con delle soglie di sbarramento che non permettano ad un partito con il 3% di determinare maggioranze improbabili per logiche di poltrone.
Il punto è che tutti dovrebbero ragionare politicamente: in una fase di composizione e scomposizione fra i poli- la guerra fratricida all’interno del pd ne è un esempio- il mattarellum è una scelta insensata, perché presuppone la creazione di un’alleanza prima del voto.

Comunque sia, se Berlusconi vuole portare a casa la legge elettorale proporzionale, deve scendere a patti con Renzi nell’ottica di un do ut des: tu mi dai il proporzionale, io ti do la legge pronta entro giugno. Anche perché, francamente, questo Parlamento ha esaurito la sua forza propulsiva e proseguire la legislatura vorrebbe dire far crescere il consenso dei 5 stelle, esattamente come accadde dopo l’esperienza Monti.

Un’ultima battuta su Trump. 

Il populismo è il risultato dell’incapacità dei partiti tradizionali di dare una risposta alla crisi. La fase politica americana ricorda, per certi versi, quella italiana del 1994, quando, complici Tangentopoli e l’assurdo della storia, cioè che il Partito Comunista prendesse il potere dopo il crollo del muro e la sconfitta di quell’ideologia, Berlusconi vinse le elezioni.

Trump nasce nel partito repubblicano, ma ne è alternativo, così come lo è la sua base elettorale, quella tradizionalmente democratica dei cosiddetti Stati operai. La globalizzazione ha creato un meccanismo per cui da un lato si sono aperti grandi mercati, dall’altro ciò ha permesso l’ingresso di Paesi come la Cina che, privi di diritti sindacali e tutele per il lavoratore, li ha resi più competitivi, facendo sì che la classe media e quella operaia occidentali fossero private del compito della produzione. In questo modo, gli unici a trarne guadagno sono stati i detentori di grandi capitali, che si sono arricchiti, mentre i cittadini comuni si sono significativamente impoveriti.

Colpisce molto un dato: il significativo aumento del tasso di mortalità negli Stati Uniti nel segmento del maschio bianco fra i 40 e i 55 anni , segno evidente di come la crisi economica- che determina l’impossibilità di ricorrere alle cure mediche- abbia colpito soprattutto middle-class e operai.

Trump ha avuto il merito di comprendere tutto questo: oggi, non a caso, ha portato gli Stati Uniti fuori dal TTIP, il trattato commerciale simbolo della globalizzazione selvaggia. Il nuovo presidente americano non è altro, che la risposta all’incapacità della sinistra di rappresentare quella classe media e operia vittima della globalizzazione. In fondo, gli interlocutori di Trump sono i nuovi poveri dell’Ohio o del Michigan, quelli della Cinton-ce lo dicono le email- assidui frequentatori di Wall street.

(di Benedetta Frucci)