Il mito della crisi strutturale: come l’Italia può rinascere davvero

Uno spettro si aggira per il nostro Paese. Non è il comunismo di marxiana memoria; è la “crisi” e il falso mito di un ineluttabile destino di decadenza per l’Italia.

Spaventati, anche a ragione, dal pericolo di una conflagrazione economica – ieri causata dallo Spread, oggi dal crollo del sistema bancario nostrano – vaccinati a colpi di spending review, deflazione, privatizzazioni inefficaci e contrazione dei diritti sociali, frustrati da una sedicente ripresa economica “sempre imminente”, gli italiani hanno introiettato il mantra che si recita sin dalle scuole elementari: “il nostro è un Paese povero di risorse, ma ricco di forza lavoro”.

Semplicemente, la favoletta è ora declinata in un contesto di natalità zero e di competizione internazionale feroce, per rendere accettabile l’importazione sistematica di mano d’opera straniera a basso costo.

L’Italia sembrerebbe, dunque, un paese strutturalmente votato al declino, incapace ormai di fare impresa e di poter contare su un’industria pesante degna di tale nome; solo una speciale amministrazione fiduciaria affidata a tecnici e burocrati saprebbe gestirne il timone, sempre all’insegna della dismissione di sovranità e patrimonio nazionale per una maggiore integrazione nel gioco globale.

Nessuna persona di buon senso potrebbe negare le intrinseche (e storiche) debolezze del nostro sistema, che si assommano del resto alla generale tendenza che vede come contrappasso a una velleitaria crescita di ricchezza in termini assoluti – per lo più di natura speculativo-finanziaria – una crescita iperbolica del divario tra ricchi e poveri all’interno degli Stati.

L’Unione Europea, succursale periferica di quella magmatica rete chiamata Occidente, è l’unica prospettiva che ci è stata offerta, l’ “unica soluzione possibile alla crisi” che, iniziata nel 2007 in America con lo scoppio di una bolla immobiliare, si è riversata dalla fine del 2009 sul nostro continente, non a caso, come crisi del debito sovrano.

Soffermarsi un momento, tuttavia, sull’etimologia della parola “crisi” – improvvisa (e per certi versi imprevedibile) perturbazione o cambiamento nella condizione di vita di un individuo o di una collettività – rivela l’uso improprio che si fa di questo termine. Gli italiani vivono – e sono indotti a ragionare – in termini di “crisi” ormai da troppo tempo per parlare di perturbazione traumatica e improvvisa.

Più congruo sarebbe definire tale situazione come declino economico e lento assottigliarsi delle condizioni ideali e storiche del vivere insieme. In tal senso ci viene in soccorso la radice greca di “crisi”, che rimanda a “scelta”, “decisione”.

Di là da una certa facilità a compiangersi (e compiacersi) dei propri vizi e limiti, dalla presunta faciloneria e superficialità genetica, e dall’incapacità nel progettare in grande a causa della povertà di risorse, quello dell’inarrestabile crisi strutturale del nostro Paese è soprattutto un falso mito, utile per occultare la mediocrità della classe dirigente degli ultimi tre o quattro decenni, e delle sue scelte. Una crisi politica e di politica, dunque.

In un momento di “grillismo” radicale è facile trovare il capro espiatorio in un ceto politico sprecone e corrotto che impedirebbe a una fantomatica “società civile” sana di esprimere le proprie energie. Al contrario, questo stesso ceto politico è espressione di un Paese a tratti isterico e schizofrenico, che prima inveisce contro la casta e poi vede nella partecipazione attiva alla vita pubblica non il momento della responsabilità e del servizio, ma l’occasione per accedere alla spartizione di una fetta di potere o di utile personale.

Certamente l’anarchismo e il settarismo dilaganti sono figlie anche della mancanza di una leadership politica forte, con una chiara visione strategica di medio-lungo termine. Tuttavia, le maggiori responsabilità ricadono proprio sui corpi intermedi della società, sui mezzi d’informazione e di formazione dell’opinione pubblica, che hanno disabituato la popolazione italiana a ragionare in termini d’interesse e priorità nazionali.

Emblematica, ad esempio, è la scena sindacale, dove le spinte settoriali e corporative sono diventate talmente ingovernabili da costringere le centraline confederali a sostenere battaglie, contro ogni ragione e logica, che hanno a che fare più col privilegio di parte che non con i principi fondamentali di giustizia sociale, sui quali poi puntualmente cedono su tutti i fronti.

La crisi economica strutturale dell’Italia, in tal senso falso mito, diventa così il pretesto per scelte politiche (pareggio di bilancio in Costituzione, legge Fornero, Jobs Act etc.) che hanno poco a che fare con l’interesse generale, e che invece rispondono a precisi interessi particolari interni al Paese, trasversali, ma ugualmente ascrivibili al partito anti-nazionale.

Tutto questo avviene nel silenzio assordante dell’opinione pubblica, sedata a dovere da un think thank legato a doppio filo proprio a quegli interessi particolari, e con la connivenza di altrettanti interessi, ma stranieri, ansiosi di mantenerci in uno stato di minorità, per meglio depredare quelle poche ma significative eccellenze che ancora possiamo vantare.

Sin dal Risorgimento l’Italia moderna si è confrontata con un teatro europeo nel quale la sua stessa esistenza quale Stato nazionale ha rappresentato una minaccia per storici e consolidati interessi geopolitici degli altri Paesi del Vecchio Continente. Preso atto dell’irreversibile processo di unificazione, non è restato loro altro da fare che puntare sulle tendenze centrifughe interne. A dispetto della retorica europeista, che rimanda ad un’idea di Europa a trazione germanico-scandinava, più che nel continente è nel Mediterraneo che si dispiegano i naturali, storici e logici interessi geopolitici del nostro Paese.

In tal senso il 1989 e il crollo del blocco sovietico ha rappresentato per noi un momento infausto, assai più del successivo Trattato di Maastricht. Pur in una condizione di subalternità al blocco atlantista, la particolare posizione strategica dell’Italia, e il lavoro svolto da personalità politiche quali Andreotti e Craxi (vituperate all’interno, ma, specie il primo, ancora oggi apprezzate fuori dei confini), hanno concesso per anni tutta una serie di deroghe: politica filo araba che mantenesse rapporti di buon vicinato con Israele, relazioni con i Paesi del cosiddetto Blocco non allineato, etc.

La sfida del domani appare difficile. Uno Stato che ha ceduto sovranità ad un’entità sovranazionale priva di legittimità; che disconosce il proprio territorio (se è vero che è possibile cedere alla Francia un tratto di mare, come quello della Sardegna, senza battere ciglio, né risponderne ad alcuno); un popolo, che nonostante una tardiva retorica patriottarda, non riesce ad avere una memoria condivisa, non a causa di latenti sentimenti di rivalsa, ma per il semplice fatto di non avere memoria (se è vero che Francesco Crispi, Sidney Sonnino e Antonio Salandra rimandano più al nome di importanti strade del centro storico di Roma, che a quello effettivo di importanti personaggi politici del tardo Ottocento e primo Novecento). Insomma, uno Stato minato nei suoi tre stessi fondamenti.

Eppure, basterebbe percorrere le contrade che vanno dal Triveneto al Salento per trovare un’Italia reale, fatta di bellezza e spesso anche di sottaciuta eccellenza, che esiste e resiste a dispetto di tutto. E’ a questa italianità che può guardare come referente politico un nuovo approccio post-ideologico, che conduca non al vuoto ideale “finiano”, liscio, livellato, senza increspature, bensì a nuove alchimie intellettuali e politiche.

La consapevolezza che l’antifascismo e l’anticomunismo sono le “battaglie” della retroguardia, e che la vera sfida è quella di creare un’alternativa sistemica allo storico e trasversale partito anti-nazionale, che oggi ha trovato una sponda insidiosissima nell’ ideologia liberal-progressista occidentale.

La capacità di ridare voce a figure come Corridoni e Gramsci, Gentile e Arturo Labriola, Preve e Pasolini, Enrico Mattei e Craxi. Riuscire a guardare con serenità al nostro passato, e quando possibile trarne spunto, perché oggetto ormai di ricerca storica, e non di dibattitto politico. Certamente, gli interstizi nei quali dare una nuova collocazione al nostro Paese sono stretti, i margini di manovra pochi.

Sarebbe necessaria una leadership politica forte e carismatica, dotata, se necessario, di poteri nuovi e diversi rispetto a quelli che conferisce la nostra Costituzione, e che abbia l’irriverenza e la spregiudicatezza di guardare a partner stranieri, magari in passato nostri rivali, ma oggi rispondenti ai nostri interessi geopolitici, sia storici che nuovi.

Quello che gli italiani di buona volontà possono fare è contribuire tutti a creare il terreno fertile, intellettuale e politico, per far emergere una figura di questo tipo. L’era di Trump sembrerebbe aprire nuove possibilità in tal senso, e sarebbe sciocco non approfittarne. Solo il tempo potrà darci ragione o torto.

(di Daniele Dalla Pozza)