Alla ricerca della fantasia italiana: intervista a Stefano Lodovichi

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L’importanza del cinema per giovani è un tema in cui credo molto: lo reputo di importanza fondamentale per la diffusione che ha il media, per le proprietà educative che gli sono implicite, e quindi particolarmente di aiuto a una società che voglia aspirare a riprendersi dal torpore come è quella italiana ma, in gran parte, di tutte le altre nazioni occidentali. Quando ho scritto di Lo chiamavano Jeeg Robot, riflettevo proprio su questa mancanza assoluta del cinema nostrano: il fantastico, l’intrattenimento, il divertimento infantile. Ricordavo come, invece, la fantasia, concettualmente, fosse patrimonio tutt’altro che estraneo alla storia italiana, come dimostrano i successi di Pinocchio e di Gian Burrasca agli inizi del XX secolo in ambito letterario.

Stefano Lodovichi, giovane regista italiano emergente, non si è ancora cimentato totalmente nel mondo del fantastico, ma nelle sue parole, nel suo atteggiamento gioioso, quello tipico di chi è consapevole di fare il lavoro che ha sempre sognato, c’è tutta la voglia di creare e di superare quel confine che la nostra cinematografia non ha mai varcato, nemmeno nei tempi considerati d’oro (a mio giudizio con poco rispetto verso il lavoro di tanti registi e attori di talento anche successivi, ma questa è una lieve divagazione).

Stefano ha 33 anni, classe 1983: non è più un ragazzo, dice, ma quello spirito giovanile é ancora vivo in lui. Il suo nome sta iniziando ad avere quel minimo di popolarità di chi, dopo oltre dieci anni di gavetta, si appresta a vivere in pieno la propria carriera, aggiungendosi ai vari Sidney Sybilia, Giorgia Farina o Gabriele Mainetti, nell’elenco dei talenti italiani del grande schermo. Visioni più tradizionali insieme al desiderio profondo di innovazione, di scoperta del nuovo. Il nuovo è, appunto, la capacità di divertirsi. Il suo secondo film, “In fondo al bosco” con Filippo Nigri, è stato un successo di critica: non molto diffuso al cinema, ha ottenuto invece risultati eccezionali per la messa in onda su Sky. La nostra chiacchierata parte dall’esperienza personale di un giovane alla ricerca della consacrazione della propria inventiva, per poi dare uno sguardo necessario al futuro del cinema italiano.

Ciao Stefano, sei al tuo secondo film. Parlaci un po’ del tuo primo lavoro, Aquadro, un dramma del 2013. E’ stato un buon inizio?

“Buonissimo, soprattutto considerando i premi ottenuti dalla sceneggiatura prima ancora di girare: il Mattador, che è un discreto riconoscimento, ma anche la candidatura al Solinas Experimenta, pur non vincendo. Rai cinema, che all’epoca aveva un progetto “Cinema per la rete”, decise di finanziarcelo. Da lì in avanti il progetto è andato in discesa”.

Aquadro si poteva definire un “dramma digitale”, se vogliamo. “In fondo al bosco” è un thriller. Visto il salto culturale notevole che esiste tra i due generi, soprattutto per noi italiani, sorge spontaneo chiederti il perché di questa differenza.

“La scelta del thriller si spiega, in realtà, con le mie inclinazioni: Aquadro rappresenta anche la maggiore facilità di esordire in Italia con un genere “social”, sia perché il drammatico è archetipico della storia artistica italiana, sia perché, da un punto di vista personale, mi sentivo ancora appartenente al mondo della gioventù e legato in qualche maniera ai ricordi dell’adolescenza: una fase che avevo superato ovviamente da anni, ma che avevo voglia di affrontare, così come mi sentivo padrone dell’argomento”.

Quanto è costato?

“Sotto il milione di euro. Ricordo molto la fatica di girarlo: luogo montano, spesso di notte, al freddo, a volte anche 16 gradi sotto zero. E’ stata una grande esperienza, ma anche tanto faticosa”.

Un bel miracolo, il risultato è relativamente notevole.

“Sì. E anche i risultati, dopo un’accoglienza fredda nelle sale, ci hanno premiato. Alla prima su Sky lo hanno visto circa 360.000 persone. Le aspettative della distribuzione non superavano le 200.000”.

C’è qualcuno del cast con cui ti sei sentito particolarmente a tuo agio?

“Con entrambi i protagonisti, Filippo Nigro e Camilla Filippi, ho trovato un grande affiatamento. Sono differenti e approcciano in modo diverso al cinema, così com ai loro personaggi. Probabilmente il ruolo che esprime maggiore solidarietà è quello di Filippo, che nel film è il padre vittima degli eventi, quindi ragiono anche con un senso di immedesimazione”.

Prima hai detto che Aquadro è stato un film scritto e pensato con l’idea di esordire in modo più semplice nel mercato italiano: significa che hai goduto di meno libertà editoriale durante le riprese, quanto meno rispetto a “In fondo al bosco”?

“Paradossalmente no. Aquadro è stato il soggetto più adatto da proporre in Italia, ma ho avuto uno spazio creativo maggiore. “In fondo al bosco” è stato un soggetto realizzato in modo più autonomo, ma nella realizzazione ho dovuto affrontare maggiori resistenze.”

A chi ti ispiri? Qual è la tua formazione?

“Beh, prevalentemente classica, e in questo gli studi di critica del cinema all’Università di Siena non possono non avermi influenzato. Dal neorealismo alla nouvelle vague, si è passato ai moderno. Non necessariamente quello che ho studiato ha poi rappresentato la mia fonte di ispirazione. Per dire, ho chiuso il ciclo di studi con una tesi su Terrence Malik, con cui però non ho nulla in comune, pur amandone tantissimo lo stile estetico e la profondità. A differenza sua, non ho un approccio filosofico nella scrittura, sono un pratico, mi piace definirmi un “uomo d’azione”, come del resto molti giovani italiani nati dal 1975 ad oggi”.

Uno dei punti centrali è questo: dalla fine degli anni ’70, gli Stati Uniti prendono il largo nel mondo cinematografico. E a farne le spese è anche il cinema italiano. O non c’è correlazione?

“Certamente. Gli americani hanno saputo capire prima di altri l’importanza dell’intrattenimento puro, del divertimento nella stesura di un film. Spielberg è il regista che meglio definisce questo atteggiamento. Grande cura, grandi ispirazioni, ma un punto di incontro tra le necessità artistiche e la capacità di arrivare a tutti”.

Qualcuno potrebbe obiettare che Spielberg, dopo aver esordito con un film come “Duel”, estremo praticamente in tutto, possa aver un po’ limitato la propria vena creativa per realizzare questo “punto di incontro”, diciamo così.

“E’ vero, però bisogna anche cercare di non fare del cinema presuntuoso, che personalmente non apprezzo tantissimo, tranne rari casi. Il boom degli americani si spiega proprio nelle loro svolte anche commerciali e nella capacità di piacere al grande pubblico, di emozionarlo”.

Ci sono generi che hanno sempre fatto parte della cultura italiana. Pensiamo alla commedia, alle tematiche spiccatamente sociali che spesso la accompagnano, o lo stesso drammatico. Altri non ne hanno mai fatto parte (film fantastici o di fantascienza, esclusi ultimi esperimenti di Salvatores e Mainetti). Il thriller italiano è un po’ una via di mezzo, per così dire: ha avuto una fase di splendore negli anni ’70, il “giallo all’italiana”, autori come Lenzi, o commistioni con l’horror come i lavori di Argento con Profondo Rosso, Pupi Avati con la La casa dalle finestre che ridono, poi è scomparso. Secondo te per quale motivo?

“Perché siamo figli di ciò che ci cresce. Avati e Argento erano cresciuti con un modello educativo di riferimento, incarnato anche nel cinema autoriale tipicamente italiano. Dopo siamo tutti più o meno cresciuti con Spielberg, Scott e altri vari, quindi con la definitiva emersione della cinematografia americana che, oltre a rendere fruibili per tutti certi modelli di storie, ha cominciato a proporre una vasta scelta di film per ragazzi che, indipendentemente dai valori che proponevano, ci hanno visto coinvolti tutti. In Europa non si è creato nulla di simile, si è rimasti ancorati al proprio mondo, senza andare oltre”.

Però la commedia ha proseguito. Ieri con Verdone e Benigni, oggi con i film di Farina e Sybilia. Così come i drammi.

“Perché sono generi che abbiamo dentro, soprattutto la commedia. E’ talmente radicata nella nostra cultura dello sdrammatizzare, della reazione comica alle problematiche, che è riuscita a sopravvivere”.

Salvatores ci ha provato, con risultati alterni, Mainetti ha fatto centro pieno, ma la fantasia italiana nel cinema, in pratica, ancora non esiste. Che opinione ti sei fatto?

“Che siamo legati alla riflessione sociale in modo estremo, di conseguenza non riusciamo a superare il confine dell’intrattenimento. E’ un problema anche generazionale però, le cose stanno cambiando: Mainetti, come me, appartiene all’era del divertimento. Ci si mettono anche le resistenze dei produttori e degli editori, che in questi generi non danno spazio ai talenti. Lorenzo Sportiello, per dire, ha girato nel 2014 un film post-apocalittico che considero notevole, Index Zero: ancora non trova il modo di arrivare in sala.”

Dal classico all’innovativo, i nomi “bravi” sembrano tanti. Anche nella stessa commedia, Giorgia Farina ha puntato sul genere “nero” che mancava da un po’ nelle sale italiane, Sybilia ha esordito in modo folgorante con “Smetto quando voglio”.

“C’è tanto talento, ma quello non è mai mancato. Siamo una generazione di sceneggiatori e registi che osano. A questa famiglia di innovatori devono aggiungersi altri produttori coraggiosi. Sono convinto che avverrà, sono parecchio ottimista”.

Ma in un mercato in cui dominano gli anglosassoni, le preoccupazioni di un produttore italiano di finanziare un film fantascientifico non possono sembrare legittime?

“No, perché il mestiere del produttore è anche quello di rischiare, come tutti gli imprenditori. Non solo, il produttore deve anche cominciare a credere nei registi, negli sceneggiatori e a non condizionarli nella creazione. Mainetti è riuscito a fare ciò che ha fatto anche grazie alla libertà che gli hanno concesso. Anche lo stesso approccio che si ha, spesso, nei riguardi del fumetto è sbagliato: non è un passatempo per sfigati, come spesso è ritenuto da molti, ma un potenziale culturale sul quale si può lavorare. Se si supera quello scoglio, l’immaginario non ha più limiti”.

Poi ci si mette anche la sfortuna. Mi permetto di ricordare Leonardo Pompucci, passato alla regia televisiva, che negli anni ’90 diresse un autentico cult come Camerieri.

“Ci sono registi che devono vivere, purtroppo. Mi viene in mente anche Giuseppe Capotondi, qualche anno fa ha diretto “La doppia ora”, un bel thriller con Filippo Tini finito ingiustamente nel dimenticatoio. So che adesso lavora in pubblicità. Non so perché non abbia continuato, non so se abbia avuto altre occasioni. Posso solo dire che dal mio punto di vista dovrebbe fare il regista”.

Chiudiamo ringraziandoti e chiedendoti dei tuoi prossimi progetti.

“Attualmente sto lavorando a un documentario, quindi un prodotto non troppo autoriale. Ma sto scrivendo anche due sceneggiature, improntate proprio alla ricerca della fantasia, del divertimento e del surreale. Uno è un mistery soprannaturale (alla Shymanalan, per intenderci), l’altro è un road movie post-apocalittico ambientato in Europa dopo una glaciazione globale.”

(di Stelio Fergola)

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