Terrorismo e ISIS, finanziatori e utilizzatori finali

All’indomani dell’attentato di Bruxelles rivendicato da Daesh, l’Italia si risveglia impaurita ed in preda alla sindrome del terrorista musulmano. Titoli di giornali ed inchieste aizzano le folle contro moschee e centri islamici. Ma se questi luoghi possono essere, se non regolamentati e tenuti seriamente d’occhio, serbatoio per il terrorismo islamista, è vero anche che senza un finanziatore Daesh non avrebbe mezzi per plagiare e far agire gli utilizzatori finali, ovvero kamikaze e foreign fighters.

Non a caso i dirimpettai di Salah, il mancato kamikaze di Parigi, arrestato poco tempo fa, hanno ascoltato una discussione in cui il terrorista rivendicava centomila euro per la sua famiglia in cambio del martirio. Così molti giovani arabi e non, partono verso le terre del califfato anche con la promessa di un salario sicuro che in Europa non trovano più (si parla di 1500 dollari al mese).

L’Isis ha un’inedita organizzazione, basata sull’idea economica e politica di stato/nazione: molti esperti di geopolitica parlano addirittura di una specie di ministero a Raqqa specializzato nell’organizzare attentati all’estero. Ma per avere a disposizione media, riviste, tv, esperti di marketing per il reclutamento e veri e propri registi che provano e riprovano le esecuzioni, con tanto di effetti speciali e location ideale, il sedicente stato islamico ha bisogno di un enorme patrimonio economico, che non può derivare solo dalla Zakhat (l’offerta prevista dal corano che i musulmani più facoltosi sono obbligati a dare agli indigenti) trasformata in vera e propria estorsione ai danni dei commercianti che esercitano sul territorio del califfo o dalle riserve auree lasciate in Iraq da Saddam Hussein nelle banche di Stato ed ora finite nelle mani dei mujahidin.

L’Isis ha dalla sua molte riserve petrolifere, ma senza acquirente resterebbero acqua sporca. Qui entrano in campo Stati e fondazioni apparentemente amici dell’Europa e dell’Italia e nemiche del terrorismo, almeno sulla carta, ma che alla fine si rivelano con la faccia pulita e le mani sporche di sangue.

Iniziamo con la Turchia, più volte sul banco degli imputati non solo per le sue frontiere colabrodo da dove quotidianamente entrano ed escono foreign fighters, armi ed esplosivi poi usati in Europa. La nazione guidata da Erdogan è partner commerciale della capitale dell’Isis. Donne e uomini scampati a Daesh parlano di Raqqa come un allungamento della Turchia. Viaggiano automobili a targa turca, sui banchi dei supermercati si trovano solo prodotti turchi, si paga non in moneta siriana ma “ottomana”.

Ma la chiave fondamentale del doppio giochismo di Erdogan è il commercio di petrolio. Fonti certe, come Ong europee e molte tv, hanno documentato che prima che la Russia bombardasse la bretella autostradale che collegava Raqqa al confine turco, Daesh forniva al suo vicino oltre 6000 barili di petrolio estratti nella zona di Deir Ezzor, oggi espugnata dall’esercito siriano. Nonostante questo doppio gioco, Erdogan tiene in ostaggio l’Europa tutta, minacciando di riempirla di immigrati e pochi giorni fa è passata all’incasso ricevendo dall’UE 6 miliardi di euro da utilizzare per il contenimento dei migranti.

Ma la Turchia non è l’unica ad avere rapporti poco chiari con il terrorismo; spostandoci più ad oriente e andando nell’area del Golfo Persico troviamo le monarchie dei Saud e gli Emiri, che utilizzano l’Isis per espandere la leadership nel mondo islamico a danno dei Paesi sciiti come Iran o Siria.

Le dinastie saudite non solo oliano per bene il sedicente stato islamico ma da tempo bombardano mercati e ospedali in Yemen per sedare la rivolta dell’etnia sciita degli Houthi, caccia sauditi sganciano su donne e bambini bombe acquistate in Italia e partite dalla Sardegna, con il placet del ministro della difesa Pinotti che dichiara a Repubblica: “è vero che vendiamo armi all’Arabia Saudita, poi cosa ne faccia non è dovere nostro saperlo”, insomma come se un pusher dichiarasse: “È vero che vendo eroina ai tossici, ma poi cosa ne fanno non è responsabilità mia”.

Tempo fa un’inchiesta giornalistica australiana ha dimostrato come due conti correnti milionari, aperti dalla famiglia Saud che governa l’Arabia, uno in Nuova Zelanda e un altro in Giordania, finanzino direttamente il califfato per destabilizzare l’Iraq e la Siria ed attaccare le forze sciite che sostengono le due nazioni. Gli stessi sauditi, che bombardano i ribelli in Yemen e finanziano l’Isis, fanno numerosi affari in Italia e sono fedeli alleati del governo Renzi.

Questi qualche mese fa è andato a trovare i sauditi, tra l’altro diretti concorrenti dell’Eni, la quale accusa qualche colpo (sospensione di molti progetti di estrazione) anche a causa dell’enorme quantitativo di petrolio emesso sul mercato dai sauditi stessi, col fine di vincere la concorrenza dell’Iran, non più gravato dal peso delle sanzioni.

Gli investimenti in Italia su quella che è una vera e propria dittatura wahabita riconosciuta come alleata dall’occidente (il wahabismo viene insegnato nelle scuole ed adottato come legge e proibisce, ad esempio, ad una donna di ridere in pubblico, pena: 50 frustate) vanno dalla Costa Smeralda al palazzo della regione Lombardia a varie holding e partecipazioni finanziarie.

Tra i sauditi, al primo posto per acquisti ed investimenti in Italia, vi è il Saudi Binladin Group con investimenti stimati tra i 4 ed i 7 miliardi di dollari. Milano invece è nel mirino degli emiri del Qatar, che da tempo finanziano Daesh tramite donazioni private e di famiglia. Ormai detengono parte del palazzo della regione Lombardia ma, soprattutto, hanno acquistato l’intero quartiere Porta Nuova, uno dei nuovi simboli di Milano, dove ha sede, tra l’altro, la Unicredit tower. La Qatar investment authority (Qia) aveva acquisito, a maggio del 2013, una partecipazione del 40% sui fondi di investimento proprietari del progetto ed a breve distanza di tempo ha completato l’investimento, rilevando il 60%.

Ma gli acquisti di emiri e sceicchi in Italia sono innumerevoli e vanno dalla Lombardia alla Sicilia, passando da Roma, e in numerosi campi: dal “Café de Paris”, locale storico della dolce vita romana, al Palazzo dell’Enel, a spiagge ed a centri commerciali in Sicilia.

Dunque, va benissimo monitorare moschee e centri islamici, spesso in mano ad imam ignoranti, sconsiderati e fomentatori di odio, ma andrebbero quantomeno visionati anche i grandi acquirenti del made in Italy perché l’idea che l’affitto pagato da un milanese di Porta Nuova possa arrivare a finanziare crudeli tagliagole ed attentati in Europa è quantomeno inquietante.

(di Luigi Ciancio)